Entriamo oggi in un argomento molto spinoso e dibattuto: la scarpa da running. L’argomento ha iniziato ad interessare già da diversi anni il mondo scientifico a causa dell’alto numero di infortuni dovuti al sovraccarico tra coloro che corrono, specialmente a livello amatoriale.
Quando compariamo le run analisi degli atleti, rileviamo che in tutti i soggetti che si infortunano e che usano scarpe massimaliste normalmente avviene:
- contatto con il suolo del tallone
- ginocchio esteso in fase di appoggio
- il cambio di arto viene lontano del baricentro molto in avanti
- la cadenza è di 155 bpm o meno
- la velocità delle forze verticali di impatto (VLR= vertical loading rate)
- forze orizzontali in frenata che sono molto importanti
- l’oscillazione verticale eccessiva
- bassa economia di corsa
Tutto questo si traduce sovente in talloniti, tendiniti, fasciti plantari, sindrome da stress medio tibiale, sindrome femoro-rotulea, ecc.
Le scarpe molto protettive favoriscono questa sequenza di gesti sbagliati perché danno l’illusione di assorbire tutti gli impatti, e la maggior parte dei runner amatoriali ignora completamente il fatto che non è la scarpa a correre, a correre deve essere il sistema elastico del piede che, ahimé, viene proprio inibito dalla scarpa e dal fatto che questa è protettiva.
La tecnica di corsa creduta normale e promossa dai brand leader di mercato è in realtà la meno naturale che esista.
Qual è allora la tecnica ottimale? Come ottenerla? Come si sceglie una scarpa? Come si passa da un tipo di corsa ad un altro? In quanto tempo?
Chi non ha particolari problemi e non ha ambizioni agonistiche o di performance, chi corre pochi chilometri per volta sempre sugli stessi terreni, può restare anche legato a una scarpa preferita, tuttavia, è bene che sia consapevole qualora si presentasse un inizio di qualsivoglia problema del legame tra l’infortunio e la tecnica sono inscindibili. Abbiamo visto fino a qui come una scarpa massimalista può indurre una tecnica di corsa potenzialmente pericolosa.
La tecnica ottimale, la più antinfortunistica in assoluto sarebbe correre scalzi e molto veloci.
Scalzi perchè in questo modo, infatti, viene naturale spostare tutto il movimento sull’avampiede, poichè senza protezione al tallone si sentirebbe dolore praticamente subito.
Veloci perchè la velocità dai 180 bpm in su implica che il cambio di arto si faccia il più possibile sotto il baricentro, altrimenti si rallenta inevitabilmente e sbilanciandosi più in avanti si ha un rallentamento.
E’ chiaro che pensare di correre scalzi è piuttosto ardito nei nostri parchi cittadini. La soluzione ottimale è, quindi, quella di puntare su calzature minimaliste, a punta arrotondata, che rispettino l’appoggio e la spinta delle dita del piede, che esaltino l’effetto molla del piede, che ci facciano aumentare la fase di volo. Per fare cambio di tecnica e di calzature è necessaria una “fase di transizione”, durante la quale, in PRIMIS, si andrà a lavorare sull’elasticità, flessibilità, risposta al carico delle strutture quali piede.
Successivamente si passerà ad abbassare il DROP della scarpa, via via a percorrere sempre più chilometri con scarpe minimaliste, fino ad aver acquisito la “corsa leggera” e fluida su avampiede. Non esiste un tempo standard per la transizione, la parola d’ordine è “GRADUALITA’ – LAVORO A SOGLIA”, ovvero stop al minimo segnale di qualcosa che ci infastidisca.
La scarpa per correre in alcuni paesi è una vera e propria prescrizione fatta dal fisioterapista dopo attenta valutazione di alcuni parametri.
Qui sotto un esempio della scala che usiamo noi, presa dalla Scuola Canadese “THE RUNNING CLINIC” di Blaise Du Bois.
Non indichiamo brand alla moda, costruiamo abiti su misura!
Articolo di Dott. Emanuela Giordani, Fisioterapista, Istruttore di Corsa Efficiente, specializzata in Prevenzione degli infortuni del Runner e trattamento delle lesioni legate alla corsa (Scuola Canadese “THE RUNNING CLINIC” di Blaise Du Bois)